A Torino c’è un luogo in cui è possibile immergersi in una atmosfera altra, fatta di note jazz, di armonie di colori e profumi speziati, fatta di una accoglienza che ha il sapore delle grandi feste comandate nell’intimità della famiglia, ma con il pregio e l’esclusività di una location unica.
Appena entrati in questo intimo ristorante, è la raffinatezza del gusto che ci avvolge, è l’essenza della tradizione unita a un pizzico di modernità e innovazione a catturarci. E dopo cena, come se tutto ciò che c’è stato non bastasse, è possibile degustare diversi tipi di distillati, whisky invecchiati, gin aromatizzati dal profumo inconfondibile.
Lì non c’è fretta. Lei rimane fuori e ogni cliente può godere di vizi e lasciarsi accarezzare l’animo. Da Gigi il cliente non è un cliente: è un ospite.
Laura è una donna bellissima, figlia del grande chef Salvatore, che in questa intervista ha scelto di raccontare al nostro magazine i segreti del loro successo uniti alla tradizione della loro storia familiare.
È il racconto di una famiglia, sono i sentimenti che hanno i profumi della tradizione, degli intonaci che si staccano dai muri dei paesi sardi sotto il sole cocente dell’estate. È il profumo del mare. È il bruciore del sale. Sono le mani del pescatore esperto e gli occhi di chi il mare lo conosce per davvero.
D. Qual è la storia della vostra famiglia e dell’amore per la cucina?
Salvatore è mio padre ed è ristoratore da 39 anni. Io e mio fratello siamo cresciuti tra pentole, ingredienti e segreti di cucina. Ho iniziato a cucinare da bambina, fin dai miei 12 anni quando, tornando da scuola, dovevo cucinare qualcosa per me e per mio fratello che eravamo soli in casa. E così cucinare è diventato un gioco, cucinare era impastare il pane e la pasta fresca con le nonne. Noi siamo Sardi, quindi arriviamo da una tradizione culinaria molto ricca.
D. Qual è il vostro paese d’origine?
È Siniscola, in provincia di Nuoro, un paesino vicinissimo al mare. Mio padre ha iniziato a lavorare giovanissimo. Ora ha 55 anni e mi ha avuto a 19. Faceva il pescatore sui pescherecci, usciva in mare ogni giorno. Ma arriva proprio da lì la conoscenza specifica delle materie prime, peculiarità del nostro ristorante. Mio padre conosce il pesce da quando era bambino. È nato e cresciuto vicino al porto.
D. Una conoscenza, quindi, che possiamo definire endemica?
Assolutamente sì. Ancor oggi mio padre va a fare la spesa tutti i giorni e sceglie personalmente le materie prime.
Questo è un valore aggiunto. Acquistiamo al mattino e cuciniamo entro la sera.
D. Da fruitore di molti ristoranti mi pongo e ti pongo questa domanda: quando un ristorante vuole offrire un ambiente domestico, casalingo, quale può essere quel quid in più per far sentire al cliente il calore di casa e la raffinatezza di una cucina unica?
Intanto noi abbiamo soltanto 20 coperti: vogliamo che il nostro cliente si senta coccolato, vogliamo che si senta come in un salotto, accolto. Poi i nostri piatti sono tutti cucinati al momento. L’ospitalità è il primo dono che offriamo al cliente insieme all’accoglienza, al sorriso e al fatto di “servirlo” nell’accezione ovviamente più positiva. Lo chef non resta in cucina, ma si avvicina al cliente, lo ascolta, cerca di capire cosa vuole veramente. Noi infatti siamo disponibili a modificare i piatti, sulla disponibilità delle materie prime che abbiamo a disposizione. Credo di poter affermare che nel nostro ristorante c’è tanta comunicazione tra il cliente, lo chef e tutti quanti noi.
Poi non dimentichiamo un’atmosfera bellissima, la luce soffusa, così difficile da trovare, almeno qui a Torino, e la cura dei dettagli.
D. Sono pienamente d’accordo… un ambiente familiare, caldo
Sì, un ambiente ricco e unico, con musica soul o jazz, con i tavoli molto vicini ma riservati. Il ristorante è piccolo e io ho voluto ricreare un ambiente caldissimo, un ambiente internazionale dal sapore metropolitano, come se i miei clienti fossero seduti in un bistrot di Parigi o a Londra.
D. Per questo parlate di cucina urbana?
Sì, cucina urbana perché unisce la tradizione italiana riportata in un contesto urbano. Mi spiego meglio: la tradizione italiana per noi sono i paccheri al pomodoro, la calamarata di mare, una bistecca di bistecca black angus nebraska. Sono tutti quei piatti tradizionali che non si trovano più nei ristoranti perché adesso la cucina è tanto rivisitata, a volte pasticciata.
Noi abbiamo materie prime internazionali e italiane, ma rispettiamo la tradizione italiana presentata ovviamente in un contesto “figo”, impiattata in modo fantastico. Ma il pacchero al pomodoro è pacchero al pomodoro e vogliamo che resti tale.
D. Ma perché questo ristorante?
Mio papà e mio fratello lavoravano in Sardegna in un ristorante: grandi numeri, tanti coperti, clientela eterogenea.
Io sognavo di aprire un piccolo ristorante raffinato a Torino, curato, bello, dove la gente si potesse sentire a casa.
Sognavo di poter dare ai miei clienti la possibilità di assaggiare quei piatti anche antichi che non si trovano più.
Ad esempio, ieri a Torino pioveva e mio padre ha cucinato la ribollita. Io sognavo tutto questo. Sognavo di riproporre quei piatti della tradizione che si sono persi e che nei ristoranti non cucinano più.
D. Papà, tu, tuo fratello. E mamma?
Mamma è dietro le quinte: questo significa che tutte le mattine presto lei è al ristorante che cura i dettagli, che sistema tutto, che ripiega i tovaglioli, che riordina e lucida. Diciamo che mamma conduce tutto il ristorante negli aspetti più pratici curando dal fiore alla candela. Quando diciamo che è una conduzione familiare, intendiamo familiare a tutti gli effetti. Siamo tutti impegnati, tutto il giorno.
D. L’unione fa la forza. L’unione familiare di più. Ma c’è qualcosa che “familiare” rende il lavoro più difficoltoso?
Sì che c’è, assolutamente sì. Ho due chef, papà e figlio, che sono due galli nel pollaio. Il papà ha un’esperienza di 39 anni, quindi la tradizione, e poi ho mio fratello che, giovane, tende all’innovazione. Ha voglia di crescere e sperimentare. Ovviamente questi due elementi insieme sono una forza, ma a volte rappresentano un contrasto difficile da gestire.
D. Cambiano i tempi, cambiano i gusti. Ultimamente si parla molto di street food. Cosa ne pensi?
Io adoro lo street food: uno dei piatti che abbiamo in carta e per cui la gente impazzisce è il “Gigi burger” fatto con carne di black angust nebraska, bacon croccante e salse.
Un hamburger delizioso fatto con un taglio di carne internazionale davvero straordinario.
D. Se invece ti parlo di cucina etnica qual è quella che preferisci?
È il giapponese, lo adoro, però ovviamente è un altro mondo. Noi a volte riproponiamo un po’ di sashimi, quindi pesce fresco marinato con la soia, però non facciamo niente più di questo. È un mondo a parte.
D. Un dolce che Laura ama… e chiudiamo in dolcezza.
Il Soave, che è il nostro tiramisù, praticamente un dolce super cremoso, con poco caffè e fatto con i biscotti della tradizione sarda.
È anche il dolce che al nostro ristorante va di più.
D. Puntiamo alle Stelle o… non interessa?
Ce lo chiedono spesso anche i nostri clienti. Diciamo che in questo periodo stiamo seguendo il nostro percorso e la nostra crescita. Il ristorante è aperto da due anni e abbiamo molto da imparare e puntiamo tanto anche sull’umiltà. Certo! Le Stelle sono le Stelle e mi piacerebbe tantissimo riceverle.
E allora sicuramente gli occhi di questa ristoratrice sono delle stelle: due stelle piene di passione. Ma qualcuno ancora si starà chiedendo chi è Gigi…
Venite a Torino e scopritelo da voi!
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